Nel mondo professionale, dove la realizzazione e l’affermazione personale sono esaltate come valori supremi, è facile dare per scontato che il successo porti automaticamente alla felicità. Un manager di successo incarna, agli occhi di molti, l’immagine dell’uomo realizzato: rispettato dai colleghi, ammirato dalla società, una vita che scorre su binari dorati. Ma cosa accade quando questa facciata inizia a mostrare delle crepe sottili, segni che non tutti riescono a vedere, nemmeno lui stesso?
Immaginiamo un manager, un uomo all’apparenza invincibile, che ha raggiunto tutte le mete prefissate. Per anni ha lavorato duramente, spinto dalla voglia di arrivare, di costruire, di dimostrare qualcosa a sé stesso e agli altri. Ha scalato i vertici aziendali, ricevuto premi e riconoscimenti, e intorno a lui c’è chi ammira la sua determinazione e il suo impegno. Ma dietro il sorriso sicuro e la stretta di mano ferma, qualcosa inizia a sgretolarsi. Sente una strana sensazione di vuoto, un’inquietudine che non sa spiegarsi. Perché mai, con tutto ciò che ha conquistato, dovrebbe sentirsi così?
All’inizio ignora questi sintomi, cercando di giustificarli come semplice stanchezza. Dopotutto, il suo successo è reale e tangibile, non c’è motivo di fermarsi e chiedersi perché non si senta appagato. Ma il disagio persiste, cresce in silenzio, mentre cerca di mantenere la sua solida immagine pubblica. E in un mondo in cui mostrarsi vulnerabili equivale a perdere credibilità, il nostro manager non può permettersi di apparire “debole”. Si impone di continuare, di ignorare quella voce sottile che gli suggerisce che, forse, qualcosa di più profondo non va.
È in questa fitta rete di negazione e incertezze che si sviluppa quella che chiamiamo “depressione mascherata”. Una condizione in cui la tristezza e la mancanza di significato si celano dietro il volto dell’uomo di successo. La depressione mascherata non si manifesta con i segni classici di tristezza visibile o disperazione esplicita; è più subdola, si insinua nelle pieghe della routine e si nasconde dietro il sorriso forzato. Il manager inizia a sentirsi prigioniero di una vita che, paradossalmente, dovrebbe rappresentare la sua libertà e il suo trionfo. Ogni sforzo per sentirsi meglio, ogni tentativo di rinnovare la motivazione si scontra con una barriera invisibile, che lo riporta sempre allo stesso punto: un senso di vuoto che sembra assorbire tutto.
L’obiettivo di questo articolo è esplorare la storia di quest’uomo, il suo viaggio attraverso la terapia psicodinamica per comprendere le radici di questa insoddisfazione nascosta, questo vuoto che il successo non riesce a colmare. Nel corso della terapia, il manager sarà costretto a mettere in discussione convinzioni radicate, a confrontarsi con aspetti di sé che aveva sempre ignorato. La sua storia ci conduce in un viaggio interiore, fatto di scoperte dolorose e di risvegli inattesi, mostrandoci come il vero cambiamento e la vera realizzazione possano nascere solo dall’accettazione dei propri bisogni autentici, al di là delle apparenze. Una storia che ci invita a riflettere sul significato del successo e su cosa sia realmente necessario per sentirsi appagati.
Depressione mascherata: Una crisi inaspettata
Il paziente è un uomo di mezza età, manager di lungo corso con una carriera brillante alle spalle. La sua figura professionale si è costruita negli anni attorno a valori come l’efficienza, la produttività e l’impegno assoluto. Apprezzato e rispettato dai suoi colleghi e superiori, è conosciuto per la sua dedizione e determinazione, che l’hanno portato a raggiungere risultati straordinari. Il suo stile di vita riflette i ritmi e le richieste di un ruolo di alto livello: orari serrati, obiettivi a breve termine da conseguire e una necessità costante di dimostrare il proprio valore e la propria competenza. Per lui, il successo non è solo un riconoscimento esterno, ma un aspetto centrale della sua identità. Ha costruito attorno a questa immagine di “uomo realizzato” un’intera rete di relazioni e un profondo senso di sé, che non si lascia facilmente intaccare.
Eppure, nonostante tutto il controllo che esercita sulla propria vita, il manager inizia a percepire un disagio crescente, una sensazione di insoddisfazione che non sa spiegarsi. La crisi inizia lentamente, come un senso di stanchezza che attribuisce inizialmente a un semplice accumulo di stress o a un periodo particolarmente impegnativo. Ma questa stanchezza non passa, anzi, con il tempo sembra penetrare più a fondo, lasciandolo svuotato anche nelle piccole cose quotidiane che prima considerava fonte di soddisfazione. Comincia a provare una sensazione di distacco emotivo dal lavoro, come se ogni attività professionale fosse divenuta improvvisamente insipida e priva di senso. La stessa carriera che fino a poco tempo prima riempiva ogni angolo della sua vita inizia a sembrargli distante, quasi estranea, come un involucro vuoto.
Nonostante tutto, il manager è riluttante ad ammettere che qualcosa in lui sta cambiando. Non riesce a dare un nome a ciò che sta vivendo; anzi, tende a minimizzare i sintomi, attribuendo il suo stato emotivo a cause temporanee o contingenti. Si dice che sia solo questione di “superare un momento difficile”, di “ricaricare le energie” e “prendere una pausa”. Decide quindi di affrontare questa crisi come ha sempre fatto nella vita: applicando la sua volontà. Si impegna a rispettare una routine più serrata, a intensificare le attività sportive, ad organizzare ogni momento per cercare di riprendere il controllo. Ma ogni tentativo di tornare alla normalità si scontra con una sensazione di fallimento. La volontà non basta a scacciare quel senso di svuotamento che si fa sempre più profondo e invade ogni aspetto della sua quotidianità. Ogni tentativo di riprendere il controllo finisce per lasciare nuove ferite nel suo senso di identità, come se ogni volta il fallimento fosse un ulteriore segno di debolezza.
A questo punto, inizia a notare il disagio anche nelle relazioni. Persone e situazioni che prima considerava familiari e sicure ora sembrano distanti, e le interazioni sociali che una volta riempivano le sue giornate ora lo affaticano. La famiglia, gli amici, persino i colleghi più vicini, non riescono a dargli conforto; anzi, tutto gli appare quasi superfluo. Questo distacco crea in lui una sensazione di isolamento, un senso di separazione dagli altri che si aggiunge all’insoddisfazione per il proprio lavoro. La solitudine emotiva si aggiunge alla stanchezza e alla frustrazione, rendendo sempre più difficile ignorare il fatto che sta attraversando una crisi profonda.
Tuttavia, accettare di trovarsi in uno stato depressivo è l’ultimo pensiero che gli viene in mente. Il manager rifiuta categoricamente di pensare alla depressione come una possibilità: per lui è una condizione che contrasta radicalmente con l’immagine di sé che ha costruito negli anni. Non può accettare di avere “qualcosa che non va”, e il solo pensiero di trovarsi in questa condizione lo riempie di vergogna e paura. La depressione rappresenterebbe un fallimento dell’identità stessa che ha costruito con tanta fatica. Ma più si rifiuta di accettare il proprio stato, più il disagio cresce, costringendolo infine a cercare aiuto.
Quando la Realizzazione non Basta: Il Declino Silenzioso di un Manager
Quando si arriva al punto in cui la realizzazione non basta più, tutto ciò che prima aveva dato senso alla vita sembra perdere la propria essenza. Per il nostro manager, uomo di successo e leader ammirato, questa scoperta è l’inizio di un declino silenzioso, una discesa invisibile che mina la sicurezza costruita negli anni. Si trova ora di fronte a un interrogativo che lo destabilizza profondamente: come può la vita che aveva sempre desiderato e raggiunto non bastargli più? È una domanda che non trova subito risposta e che, a ogni tentativo di rimozione, lo risucchia sempre più in un vortice di ansia e insoddisfazione.
Con ogni nuovo segnale di disagio, il manager cerca di razionalizzare, di ripristinare quell’equilibrio che fino a poco prima gli sembrava naturale. Eppure, la sua consueta determinazione e la forza di volontà che ha sempre considerato suoi alleati ora lo tradiscono, lasciandolo in balìa di un senso di fallimento che non riesce a spiegare. È come se la vita che aveva costruito fosse improvvisamente divenuta una trappola da cui non sa come fuggire. Ogni mattina si sveglia con la speranza di ritrovare l’energia e la motivazione, ma la sensazione di vuoto lo avvolge più in fretta, rendendo i suoi successi passati sfocati, privi di valore. Nonostante l’apparenza esterna di impeccabile manager e leader, dentro di lui sente che tutto sta crollando.
Questa crisi interna non rimane confinata alla sfera professionale. Anche le sue relazioni iniziano a risentire del suo stato emotivo. Persone che un tempo gli erano care – amici, colleghi e persino i membri della sua famiglia – ora lo trovano distante, come se una barriera invisibile gli impedisse di connettersi davvero con loro. Le conversazioni che un tempo erano una fonte di piacere si trasformano in fatiche, mentre i legami affettivi sembrano carichi di aspettative che non riesce più a sostenere. Il suo mondo sociale, una volta animato, si trasforma in un panorama arido, in cui si sente sempre più isolato e privo di punti di riferimento.
Per un uomo abituato a gestire e dominare ogni situazione, ammettere di essere in crisi è impensabile. La depressione, con la sua connotazione di vulnerabilità, lo riempie di vergogna e lo terrorizza, come se accettarla significasse ammettere una sconfitta totale della propria identità. Per lui, riconoscere questo stato equivarrebbe a contraddire tutto ciò che ha sempre rappresentato: la forza, la stabilità e l’efficacia. Questa lotta interiore è lacerante. Tenta di respingere l’idea di essere sopraffatto dalle emozioni, cercando di razionalizzare, di riprendere il controllo su di sé come ha sempre fatto. Tuttavia, ogni sforzo per negare il problema si trasforma in un insuccesso che lo porta a sentire ancor più profondamente il proprio fallimento.
Arriva, infine, un momento di resa, anche se non è una resa consapevole e immediata. È il punto in cui si rende conto che le sue strategie di sempre – l’impegno, la dedizione e la spinta alla perfezione – non riescono più a salvarlo dal vuoto. Sente di dover cercare risposte altrove, ma ancora non sa dove. La vita che aveva costruito gli appare priva di significato, e i sogni e le ambizioni che un tempo lo guidavano sembrano fantasmi del passato, incapaci di suscitare la minima emozione.
Quando il manager accetta infine di chiedere aiuto, lo fa come un uomo che ha perso l’orientamento e cerca una mappa per ritrovarsi. La terapia rappresenta per lui un approdo inatteso, una possibilità di esplorare ciò che finora ha ignorato, di trovare un nuovo equilibrio che non si fondi solo sui riconoscimenti esterni. È un percorso che non avrebbe mai pensato di intraprendere, ma che diventa essenziale per recuperare se stesso, per guardare oltre il successo e riconnettersi con un sé autentico che ha trascurato per troppi anni.
Il Rifiuto del Disagio: Dubbi, Perplessità e Negazione
“Non è possibile, ho tutto”: questo è il pensiero che si ripete nella mente del manager ogni volta che un’inquietudine improvvisa o una fitta di insoddisfazione attraversa la sua giornata. Gli sembra inconcepibile che proprio lui, uomo di successo, possa sperimentare un disagio così profondo. Come può una persona che ha tutto – riconoscimento, stabilità, benessere economico – arrivare a provare un senso di vuoto tanto destabilizzante? È una domanda che lo assilla, anche se tenta con ogni mezzo di ignorarla, perché l’idea stessa che qualcosa non vada contrasta con tutto ciò che ha costruito e rappresenta. Questa crisi, che si insinua tra le pieghe della sua quotidianità, viene vissuta come una debolezza inaccettabile, un’ombra che non può permettersi di ammettere.
Nella sua mente, la soluzione è chiara: non è lui a essere in crisi, ma la sua routine, la sua vita troppo stressante. Convinto di poter risolvere il disagio con maggiore impegno e controllo, decide di intensificare le attività, convinto che la volontà possa essere il rimedio a tutto. Così, si butta nel lavoro con ancora più intensità, aumenta le ore in ufficio, cerca di rendere le sue giornate più piene, senza lasciare spazi vuoti in cui possano emergere le sue insoddisfazioni. Anche i momenti di riposo e di svago diventano funzionali al suo obiettivo: ricostruire quella sicurezza che sente venire meno. Ma più si sforza di riempire ogni minuto, più gli sembra di lottare contro un’onda invisibile che torna ogni volta più forte, lasciandolo esausto e confuso.
Inizia a capire che i suoi tentativi di fuga, per quanto intensi e metodici, sono solo temporanee distrazioni. Gli impegni, lo sport, le attività sociali non riescono a compensare quella sensazione di vuoto che si fa sempre più persistente. Ogni sforzo per dominare la situazione lo lascia con un senso di fallimento. È come se, paradossalmente, quella forza di volontà che ha sempre considerato un valore aggiunto stesse ora diventando una prigione, costringendolo a seguire una routine che non riesce più a riempirlo davvero. Ogni nuovo tentativo fallimentare lo porta a provare un sentimento che non ha mai conosciuto veramente: l’impotenza. Non può sfuggire a sé stesso, e il disagio cresce, rivelando quanto sia fragile la costruzione su cui ha basato il suo concetto di realizzazione.
Il successo, che fino a poco tempo prima era stato il fulcro della sua identità, non gli dà più quella rassicurazione che cercava. È come se un velo gli fosse stato strappato dagli occhi, mostrandogli che la sua ambizione, pur portandolo lontano, ha lasciato parti di sé in ombra, mai realmente vissute. Inizia a sentire il peso di qualcosa che non aveva mai voluto esplorare: il suo bisogno di un significato più profondo, un desiderio di connessione con sé stesso che va oltre gli obiettivi raggiunti. Eppure, questa consapevolezza si scontra con il suo stesso concetto di “uomo realizzato”. Come può permettersi di desiderare altro, dopo aver speso anni a costruire la propria vita su una definizione di successo così solida? Ammettere il bisogno di significato sembra un tradimento verso l’immagine di sé che ha sempre difeso.
Questa dualità, tra il desiderio di sentirsi veramente soddisfatto e la paura di ammettere che qualcosa nella sua vita non basta più, si manifesta in un’inquietudine che permea ogni aspetto della sua quotidianità. La sensazione di vuoto cresce, accompagnata da una perplessità e da una paura che non sa spiegarsi del tutto. Questo disagio lo porta a domandarsi se tutto ciò che ha costruito, l’identità di “uomo di successo”, non sia in realtà una facciata costruita per proteggersi da un senso di incompletezza più profondo. La crisi, che inizialmente cercava di ignorare, si fa sentire con una forza crescente, e ogni volta che prova a negarla, avverte una resistenza sempre maggiore.
Alla fine, il rifiuto del disagio si rivela inefficace. Il manager capisce, seppur lentamente, che non è possibile continuare a nascondere il proprio bisogno di qualcosa di più autentico. Il successo esteriore non riesce più a soddisfarlo, e la volontà che in passato gli aveva permesso di superare ogni sfida si dimostra ora impotente di fronte al desiderio di significato che emerge dal profondo.
La Psicoterapia Psicodinamica e l’Inizio del Cambiamento
Quando il manager arriva in terapia, lo fa in uno stato di estrema frustrazione, stremato dal suo stesso tentativo di controllare quel disagio che ormai lo accompagna costantemente. Nonostante la decisione di consultare uno psicoterapeuta, è chiaramente riluttante ad ammettere di avere davvero bisogno di aiuto psicologico; per lui, entrare in psicoterapia significa implicitamente riconoscere che qualcosa in lui “non va”. Non si percepisce come “malato” o “debole”, e in cuor suo vede questo passo come una scelta temporanea, una soluzione rapida per risolvere un problema che considera transitorio. Così, si siede in terapia come se fosse un cliente alla ricerca di un servizio da cui esige risultati tangibili.
All’inizio, il manager mantiene un atteggiamento formale e distaccato, cercando di impostare il percorso terapeutico a modo suo. Non vuole esplorare troppo a fondo le proprie emozioni, preferendo che il terapeuta gli offra soluzioni immediate e dirette, come se il processo terapeutico fosse una consulenza aziendale piuttosto che una discesa nei suoi mondi interiori. Ogni volta che il terapeuta cerca di andare oltre le sue parole, portando l’attenzione su aspetti più intimi e nascosti del suo malessere, il manager si irrigidisce, cercando di riportare la conversazione su un piano razionale. La terapia, però, non funziona con la stessa logica di una riunione d’affari, e questo confronto lo destabilizza, portandolo a sentirsi irritato e, in qualche modo, vulnerabile.
Uno degli elementi più complessi che emerge è la sua resistenza al cambiamento. Inizia a emergere un conflitto interiore profondo: da un lato, vorrebbe che la terapia lo aiutasse a “rimettersi in carreggiata”, a tornare a essere il manager impeccabile di prima; dall’altro, il processo terapeutico gli rivela lentamente che la crisi che vive è radicata proprio nella sua identità di successo e controllo. Il terapeuta diventa così una figura su cui il manager proietta le sue aspettative, le sue paure e le sue insoddisfazioni, e il processo di transfert si avvia in modo intenso. Comincia a vedere il terapeuta come qualcuno che dovrebbe guidarlo, quasi imporgli una soluzione, e reagisce con frustrazione ogni volta che il terapeuta gli restituisce invece il compito di esplorare le proprie emozioni.
Attraverso queste dinamiche, iniziano a emergere dubbi sul valore reale del successo. Lentamente, il manager realizza che il successo esterno, il controllo totale della sua vita, non gli hanno mai realmente dato serenità. Le sue proiezioni sul terapeuta – prima di ammirazione, poi di delusione e persino di rabbia – rivelano quanto sia difficile per lui accettare di non avere il controllo, persino in un luogo sicuro come la terapia. Sente una forte resistenza ad ammettere che, sotto il successo, c’è un bisogno profondo di approvazione che lo ha accompagnato sin dall’infanzia, ma con il tempo inizia a confrontarsi con questa verità.
Il terapeuta lo guida verso la consapevolezza del fatto che la crisi attuale è, in parte, una conseguenza del suo stesso stile di vita e delle convinzioni che ha costruito nel tempo. Ogni risultato ottenuto, ogni obiettivo raggiunto è stato per lui una conferma del proprio valore, ma anche un mezzo per nascondere parti di sé che percepisce come fragili o inaccettabili. La terapia diventa così un processo di “smantellamento” di questa identità rigida, e il manager si trova a dover riconsiderare le proprie priorità e il significato stesso della realizzazione.
Con il tempo, inizia a prendere coscienza di quanto abbia vissuto in funzione delle aspettative altrui, portando avanti uno stile di vita che ha sempre risposto alla sua necessità di dimostrarsi all’altezza. Questo lo porta a una graduale uscita dalla negazione, una fase delicata e complessa, in cui si scontra con una nuova visione di sé. Comincia a riconoscere che il desiderio di essere sempre all’altezza e impeccabile nasconde una profonda paura di essere giudicato. Il bisogno di approvazione emerge come una costante che ha guidato molte delle sue scelte e delle sue azioni, anche se a livello conscio non ne era consapevole. Questa consapevolezza inizialmente lo disorienta, ma allo stesso tempo apre una porta verso un cambiamento autentico.
La terapia psicodinamica gli offre così un nuovo spazio di espressione, dove impara gradualmente a lasciarsi andare e a tollerare quella vulnerabilità che ha sempre temuto. Scopre che non c’è debolezza nell’ammettere il proprio bisogno di connessione e significato, e che non tutte le risposte possono essere trovate attraverso la volontà o il controllo. Il percorso terapeutico diventa un viaggio di scoperta, in cui inizia a costruire una nuova identità, non più basata esclusivamente sui successi esterni, ma su una comprensione più profonda e autentica di sé.
Affrontare il Vuoto Interiore: Comprensione e Accettazione del Cambiamento
Affrontare il vuoto interiore non è stato semplice per il manager. La terapia psicodinamica lo ha portato progressivamente a riconoscere che ciò che desiderava davvero, quel senso di “altro” che intuiva e che inizialmente lo confondeva, era in realtà molto diverso da ciò che aveva costruito nel corso della sua carriera. Quella consapevolezza iniziale è emersa lentamente, come un’eco nascosta, e lo ha posto di fronte a un conflitto profondo con l’immagine che aveva sempre avuto di sé. Fino a quel momento, la sua identità di “uomo realizzato” era stata una certezza, una roccaforte nella quale sentiva di poter fare affidamento in ogni situazione. Ma con l’avanzare della terapia, è emerso che proprio questa immagine di successo nascondeva bisogni emotivi rimasti inespressi, un vuoto che non poteva essere colmato solo dai riconoscimenti professionali.
Rendersi conto di questo è stato un passo difficile, che ha richiesto un’enorme forza interiore. Accettare di voler “qualcosa di più” non significava solo mettere in discussione il valore di tutto ciò che aveva costruito, ma anche aprirsi alla possibilità che la sua realizzazione non fosse mai stata completa. È qui che il terapeuta ha potuto guidarlo nell’esplorazione delle sue fragilità, portandolo a confrontarsi con aspetti di sé che aveva sempre cercato di tenere nascosti, persino a se stesso. Attraverso il percorso psicodinamico, il manager ha iniziato a lavorare su quella vulnerabilità che per lungo tempo aveva percepito come una minaccia alla sua immagine di uomo forte e risoluto. Ha scoperto che l’accettazione di questi aspetti non rappresentava un fallimento, ma piuttosto una possibilità di crescita e di connessione autentica con sé stesso.
A mano a mano che esplorava il proprio mondo interiore, ha iniziato a capire che quei bisogni non soddisfatti – il desiderio di essere accettato per ciò che era realmente, la necessità di trovare uno scopo che andasse oltre il lavoro – erano parti essenziali di sé, aspetti che aveva sempre ignorato perché in conflitto con l’immagine del manager impeccabile e imperturbabile. Ha iniziato a percepire la vulnerabilità come una forza, qualcosa che lo rendeva umano e gli permetteva di riconoscere la propria complessità. Accettare questi bisogni ha significato per lui fare pace con un’idea più completa e, in definitiva, più autentica di sé.
Con il tempo, si è aperto alla possibilità di costruire un senso di realizzazione che non dipendesse esclusivamente dai risultati esterni, ma che trovasse radici anche nelle sue emozioni, nei legami più profondi e nella capacità di accogliere la propria umanità. Questo percorso di accettazione è diventato una chiave per aprirsi a una nuova visione di realizzazione personale, meno rigida e più inclusiva, in cui il successo non è più l’unico metro di misura della sua autostima. Ha imparato a guardare alla propria vita in modo meno vincolato alla produttività e ai riconoscimenti, trovando un equilibrio tra il desiderio di eccellere e la necessità di vivere in modo autentico.
Alla fine, il manager ha compreso che il cambiamento non significava rinunciare ai suoi valori, ma integrarli in una vita che fosse più in sintonia con i suoi veri desideri. Ha iniziato a vivere una realizzazione che includeva il successo professionale ma che lasciava spazio anche per altre dimensioni, quelle che prima aveva sempre trascurato. Questa nuova visione gli ha permesso di riconoscere il valore di essere sé stesso in tutte le sue sfaccettature, non più solo un “uomo realizzato” agli occhi degli altri, ma una persona pienamente connessa al proprio mondo interiore.
La riscoperta del sé autentico
Nella terapia psicodinamica, il manager inizia a intravedere uno spazio nuovo: la possibilità di riscoprire il proprio sé autentico, quel nucleo profondo e genuino che per anni è stato sepolto sotto strati di immagini e ruoli esterni. Per gran parte della sua vita, il paziente aveva inconsciamente costruito un’identità basata sul “falso sé”, un concetto sviluppato dallo psicoanalista Donald Winnicott, il quale descrive come il falso sé sia una maschera che si forma in risposta alle aspettative esterne, spesso per evitare la sofferenza legata alla vulnerabilità e al rifiuto. Questo falso sé del manager, orientato al controllo e al successo, era stato forgiato da anni di ambizioni, aspettative e necessità di conferma da parte del mondo esterno, un “io pubblico” che era riuscito a soddisfare gli standard di efficienza e resilienza che aveva sempre percepito come imprescindibili.
Attraverso il lavoro terapeutico, però, il manager comincia a mettere in discussione questa facciata, riconoscendo che dietro il suo bisogno di approvazione si nascondeva una parte più profonda e autentica che non aveva mai avuto la possibilità di emergere: il “vero sé”. Winnicott vede il vero sé come il nucleo autentico dell’individuo, una sorgente di spontaneità e creatività che può emergere solo quando si trova in un ambiente sicuro e accogliente. Il terapeuta, in questo contesto, diventa quel “holding environment” di cui parla Winnicott, uno spazio protetto dove il manager si sente libero di esplorare e di lasciar affiorare quella parte di sé che non è legata al dovere, all’apparenza o alla performance.
Il concetto di sé autentico è ulteriormente arricchito dalle teorie di Heinz Kohut, che parla della centralità dei bisogni del sé, in particolare della necessità di essere visti e compresi. Kohut spiega come il “sé grandioso” rappresenti una tendenza naturale verso la ricerca di ammirazione e riconoscimento, ma sottolinea anche l’importanza di una “revisione” di questa spinta narcisistica attraverso un percorso di comprensione e accettazione. Per il manager, questo implica un passaggio dalla ricerca di approvazione esterna alla costruzione di un’immagine di sé basata su un’intima e profonda autostima. Il riconoscimento che il manager inizia a trovare non arriva più dagli applausi del mondo esterno, ma dal valore intrinseco che impara a darsi come persona. La terapia lo aiuta a distaccarsi gradualmente dalla costruzione rigida del falso sé e a sperimentare il vero sé, esplorando quei bisogni autentici e quella spontaneità che erano stati fino a quel momento messi da parte.
Melanie Klein, con la sua teoria del mondo interno, offre un’altra prospettiva utile per comprendere il processo che il manager attraversa. Secondo Klein, le esperienze vissute nell’infanzia influenzano il nostro senso di integrità interna, e le dinamiche di difesa come la “scissione” possono portare a una visione frammentata del sé, rendendo difficile per una persona accettare la propria complessità. Nel caso del manager, la terapia diventa il luogo in cui iniziare a integrare tutte quelle parti di sé che aveva rifiutato, comprese le insicurezze, le fragilità e il bisogno di connessione autentica. Il lavoro terapeutico lo porta ad accettare la coesistenza di aspetti diversi del suo carattere e della sua identità, abbandonando l’idea che esista una sola “versione” di sé degna di essere mostrata al mondo.
Infine, anche Erik Erikson offre un contributo prezioso con il concetto di “integrità dell’Io”, che descrive come l’accettazione dei vari aspetti di sé possa portare a una sensazione di completezza e di realizzazione, in particolare nelle fasi di passaggio della vita. Per il manager, riconoscere e integrare i suoi bisogni autentici gli consente di arrivare a un livello di realizzazione che va oltre il successo professionale. La terapia psicodinamica, quindi, non lo porta semplicemente a cambiare, ma a scoprire nuove parti di sé, permettendogli di sentire che la sua identità non è più una struttura fissa e immodificabile, ma qualcosa che può evolvere in sintonia con i suoi valori profondi.
La riscoperta del sé autentico è un processo complesso e doloroso per il manager, ma rappresenta un passo fondamentale verso una realizzazione più genuina. Non si tratta più di essere il manager perfetto o il leader indiscusso, ma di trovare valore nella propria umanità, nella capacità di essere vulnerabile e nell’accettazione di sé come persona intera. Il cammino verso il vero sé diventa, quindi, un viaggio di liberazione dalle maschere imposte dal falso sé, consentendogli di vivere in modo più spontaneo, senza l’angoscia di dover sempre corrispondere a un’immagine prefissata.
Questa nuova consapevolezza del sé autentico gli permette di ridisegnare la propria identità non più come un mero raggiungimento di obiettivi, ma come un’espressione completa e libera di chi è davvero.
Risultati e Cambiamenti nella Vita del Paziente
I cambiamenti nel modo di vivere del paziente sono profondi e pervasivi. Dopo il percorso terapeutico, inizia a vedere il lavoro con occhi diversi: non più come l’unico terreno in cui dimostrare il proprio valore, ma come una parte importante della vita, in equilibrio con altri aspetti del proprio mondo interiore. Ora riesce a dare valore al contributo professionale che offre, senza che il successo o il fallimento professionale determinino la sua identità. Ha imparato a ridimensionare l’importanza del controllo assoluto e a riconoscere i suoi limiti, permettendosi di vivere il lavoro senza la costante pressione di dover eccellere a tutti i costi.
Questo cambiamento si riflette anche nelle relazioni personali, dove il paziente comincia a cercare una connessione più autentica e aperta. Abbandona gradualmente l’immagine del manager perfetto anche in famiglia e tra amici, permettendosi di condividere non solo i suoi successi ma anche le sue difficoltà e insicurezze. Condivide aspetti di sé che aveva sempre tenuto nascosti, aprendo un dialogo più profondo con le persone a cui tiene. Questa autenticità lo avvicina alle persone, portando una nuova qualità e intensità nelle sue relazioni, e gli consente di ricevere supporto senza sentirsi giudicato.
Il cambiamento più significativo, però, si riscontra nella riscoperta del sé autentico. Il paziente si sente progressivamente meno costretto a indossare la maschera del manager impeccabile, liberandosi dal peso delle aspettative altrui e, soprattutto, delle proprie. Riconoscendo la validità delle sue fragilità e imparando a essere in sintonia con i suoi bisogni autentici, sviluppa una maggiore apertura emotiva. Non si limita più a rispecchiare un’immagine di successo costruita ad hoc, ma abbraccia l’interezza della propria identità, comprendendo che essere umano è qualcosa di molto più vasto e sfaccettato.
Questa nuova autenticità gli permette di vivere con maggiore serenità e pienezza. Non deve più difendersi dalla vulnerabilità, e scopre che questa apertura non solo lo rende più libero ma anche più vicino agli altri, migliorando la qualità della sua vita a tutto tondo.
Riflessioni Cliniche
La psicoterapia psicodinamica si rivela particolarmente preziosa nel trattamento della depressione mascherata, una condizione che spesso colpisce persone che hanno costruito la loro identità su un’immagine di successo e perfezione. A differenza della depressione manifesta, in cui il disagio appare evidente e direttamente riconoscibile, la depressione mascherata è insidiosa, poiché si nasconde dietro una facciata di realizzazione e apparente soddisfazione. In questi casi, il paziente si sente “bloccato” senza capirne la causa, e la sua capacità di riconoscere i propri bisogni autentici risulta spesso soffocata dalle aspettative interne ed esterne. La psicoterapia psicodinamica offre uno spazio sicuro in cui il paziente può iniziare ad esplorare il proprio mondo interiore, consentendogli di affrontare quel vuoto che il successo esteriore non può colmare.
Uno dei grandi vantaggi dell’approccio psicodinamico è la possibilità di lavorare su quegli aspetti inconsci della psiche che spesso restano inaccessibili in altri percorsi terapeutici. Nella depressione mascherata, il disagio non si manifesta attraverso la tristezza o la disperazione aperta, ma piuttosto con una perdita di significato e un senso di insoddisfazione indefinita. La terapia psicodinamica aiuta il paziente a riconoscere che ciò che lo fa soffrire non è la mancanza di successo, ma il modo in cui il successo è stato costruito come sostituto di una realizzazione interiore. Questo processo di consapevolezza richiede tempo e pazienza, ma permette al paziente di riscoprire parti di sé che erano state trascurate o represse.
La complessità del trattamento emerge in modo particolare in individui con alta resistenza al cambiamento, come nel caso del manager in questione. Quando una persona ha costruito un’identità solida e strutturata sulla base di risultati e riconoscimenti, qualsiasi spinta a rivedere questa costruzione incontra una forte resistenza. Questi pazienti hanno spesso una visione rigida di sé e del proprio valore, profondamente legata a un’immagine sociale ben definita. In terapia, la resistenza può manifestarsi come un rifiuto di esplorare emozioni difficili o come un tentativo costante di mantenere il controllo sulla narrazione di sé. Il processo di transfert, dove il paziente proietta sul terapeuta aspettative e dinamiche interiori, è uno strumento fondamentale per portare alla luce queste resistenze. Con il tempo, il paziente impara a lasciare andare le difese e a entrare in contatto con parti di sé che ha sempre cercato di ignorare.
Uno dei punti centrali per il paziente è la scoperta dell’importanza di riconoscere e accettare i propri bisogni emotivi autentici. Spesso, le persone con depressione mascherata trovano difficile ammettere di avere bisogni che vanno oltre il lavoro e il successo, poiché hanno interiorizzato l’idea che la realizzazione professionale debba essere l’obiettivo ultimo. Questa concezione rigida non lascia spazio alla vulnerabilità, all’esplorazione di sé e alla costruzione di un’identità più completa. La psicoterapia psicodinamica aiuta il paziente a sfidare queste convinzioni limitanti, permettendogli di riconoscere la validità dei propri desideri autentici e di accettare che la realizzazione personale non deve dipendere esclusivamente dai successi esterni.
In conclusione, la psicoterapia psicodinamica si dimostra essenziale per chi vive una depressione mascherata, poiché offre uno spazio per esplorare l’interiorità in profondità, facendo emergere bisogni e aspirazioni nascosti. Questa scoperta consente al paziente di integrare nuove dimensioni nella propria vita, costruendo una realizzazione che va oltre il semplice successo professionale. L’importanza di accettare i propri bisogni autentici, di abbracciare la vulnerabilità e di riconoscere che il proprio valore non è legato esclusivamente alla performance, sono tutti aspetti che contribuiscono a una vera crescita personale e a una qualità di vita più equilibrata e soddisfacente.